Un percorso ad anello in Majella da 10 e lode

Fino alla Grotta Callarelli da Palombaro per Colle Bandiera e la val Serviera, rientro per il vallone di Santo Spirito.


Eravamo rimasti a ieri sera, col Macirenelle incappucciato dopo un violento temporale e con la speranza di vederlo l’indomani, cioè oggi, ergersi nel cielo azzurro. Quando vai a letto con delle speranze la mattina successiva la prima cosa che fai è cercare di consolidarle, e con un occhio ancora chiuso e l’altro aperto, la prima cosa da cui sono stato colpito sono stati i raggi di un sole pallido ancora mattiniero. Aprire gli occhi e essere abbagliati dal sole era il meglio che potevamo aspettarci e anche se non è durato molto era già un buon presagio; a dire il vero il cielo era un po’ velato, a tratti insistentemente, fino al mare, qualche striatura di azzurro dava più luce e tutto sommato potevamo anche accontentarci, ma come si dice, mai fare i conti senza l’oste; stavamo guardando verso Sud-Est, non era alla nostra portata il versante Nord-Ovest, quello appunto dove il Macirenelle e la Majella tutta si alzava sovrastandoci. Nubi scure incappucciavano le creste, dai 1400mt in su era solo un grigio fitto ed omogeneo, peggio ancora l’orizzonte verso Nord dove un profilo buio faceva spegnere l’ottimismo di pochi minuti prima. Siamo andati a far colazione con la coda tra le gambe, ma non potevamo arrenderci da subito, eravamo lì per una delle più belle escursioni della Majella e ragionandoci, quasi ad autoconvincerci, abbiamo riflettuto sul fatto che non raggiungendo quote superiori ai 1600 mt, non raggiungendo mai, o quasi mai creste, mai le vette, escluso il basso e vicino colle Bandiera, non saremmo stati a rischio temporali; ci siamo detti che comunque fosse andata sarebbe valsa la pena e che in ogni caso, per crederci, sarebbe bastato essere flessibili sul progetto. Avanti un passo alla volta nella speranza che la variabilità delle condizioni meteo non ci avessero costretto da subito ad una ritirata; una volta oltre la metà del percorso ci saremmo preoccupati del rientro da valutare se a chiudere il previsto anello o sulle orme dell’andata. Insomma in balia un po’ del meteo ed un po’ della fortuna ci siamo rincuorati e anzi anche infervorati; andavamo incontro ad ambienti quasi selvaggi, vederli in condizioni non proprio perfette non poteva che aumentare il feeling con la natura e con la “montagna madre”. Per giustificare quel minimo d’ansia che ci era presa serve descrivere nel dettaglio l’escursione che avevamo pianificato, un quasi anello che ci avrebbe portato nel cuore della Majella, da Palombaro, zona Capo le Macchie, per il Colle Bandiera, traversando alti la val Serviera fino alla Grotta Callarelli, per risalire sul versante opposto, scavallare di nuovo la val Serviera e scendere fino a Bocca dei Valloni e da lì, per la Valle di Santo Spirito fino a Fara San Martino. Dislivello non notevolissimo, circa 1300 mt, lunghezza invece considerevole, circa 18 km, ma soprattutto, in condizioni meteo incerte, nella parte centrale dell’escursione, ci saremmo trovati praticamente confinati all’interno della Majella senza una via di rientro veloce; valeva la pena, c’erano tante emozioni da andare a vivere e tantissimi posti belli e nuovi da conoscere. Troviamo subito Capo le Macchie, da Palombaro si raggiunge il campo sportivo, gli si gira intorno salendo il crinale e dopo qualche curva si prende la strada a sinistra verso Fara; un cartello sulla destra indica la località di Capo le Macchie, al successivo incrocio si prende a sinistra passando accanto ad un’abitazione e dove termina la strada d’asfalto si parcheggia. L’inizio del sentiero è evidente, una prima palina indica un incrocio di sentieri con le varie direzioni, seguiamo il G6, poco più avanti un manifesto con la descrizione della grotta pastorale Callarelli ne sancisce l’imbocco. Prima in piano e poi alzandosi decisamente, il sentiero sempre ben marcato, aggira gli speroni rocciosi, supera una deviazione che sulla destra, circa cinquanta metri più in là, porta ad un bottino con tanto di panchina sotto una tettoia per potersi godere il panorama e continua a salire con pendenza costante. Subito alti si gode sempre di un panorama sul versante di Fara e a tratti fino al mare; il sole ancora relativamente basso, almeno quel poco che filtra verso Est, si specchia sul mare e mette in evidenza il sottile profilo delle isole Tremiti e più a Sud lo scuro sperone del Gargano. Nei pressi di un tratto sconnesso e sassoso del sentiero, a quaranta minuti dalla partenza, si raggiunge la prima fontana che contraddistingue questo percorso (questo lato della Majella e questo sentiero in particolare è ricco di fontane). Bello, nei pressi della fonte, è l’affaccio su Fara San Martino, più su poi, sotto Colle Bandiera, se ne apriranno altri a dir poco vertiginosi. Il sentiero continua aspro e sassoso ma meno ripido, segue scontornando i fianchi del Macirenelle, ed i fossi e canali che si susseguono; dove il sentiero aggira un canale marcato e compie un gomito stretto, in un tratto piano che si incanala tra la parete della montagna ed uno sperone alto circa un metro, incontriamo una curiosità, una chicca delle tante che popolano le storie della Majella e che pochi conoscono. A terra ci sono dei pali, dei grossi rami legati tra loro e tutti insieme alla parete; nella stagione invernale sono la barriera, il “cancello” che pone Domenico, l’ultimo pastore della Majella, per non far scendere a valle i muli. Li lascia in alto, i muli, tutto l’anno, nei pressi della grotta che usa per stazzo, tanto, come dice lui, se la cavano anche negli inverni più freddi e nevosi; ricordo che rimasi a bocca aperta quando me lo raccontò, pensai che le vere e dure leggi della montagna sono ben altra cosa rispetto a tutti gli scenari poetici o avventurosi che ci costruiamo noi escursionisti. Oltre, il sentiero si alza lentamente, sotto colle Bandiera, la cui croce è visibile praticamente da sempre, si divide, a destra sale direttamente alla sella, proseguendo diritti si scontorna la cima di Colle Bandiera e si raggiungono gli speroni che si affacciano a precipizio sul vallone del Fossato e che dominano letteralmente Fara San Martino; l’affaccio è dirompente, riluttante e nello stesso tempo ammaliante, da non perdere. In dieci minuti, per tracce o semplicemente salendo diritti si raggiunge la croce di acciaio di Colle Bandiera. Fino ad ora il sentiero oltre che panoramico è stato un giardino fiorito di decine e decine di specie diverse, non ho risparmiato tempo per cercare di fotografarli, alcune orchidee mai viste spero possano regalarmi una sorpresa quando andrò a cercare di dargli un nome; mi son dato da fare per documentare al meglio queste fioriture bellissime per poterle riportare nell’album dedicato a questa escursione e poterle condividere con chi avrà la voglia e la pazienza di leggermi. Il Macirenelle lì sopra non accenna ad uscire allo scoperto, le nuvole, formato nebbia uniforme, ora si alzano ed ora precipitano sui fianchi della montagna ma mai la liberano; ci diciamo che fin tanto rimangono a quelle quote, e soprattutto se non innescano temporali, a noi va bene così, ma è ancora troppo presto per queste paure, considerando i tempi di marcia e le distanze, quando sarà più alta la probabilità di temporali, nel primo pomeriggio, dovremmo già essere di nuovo bassi dentro il vallone di Santo Spirito. Il tempo di riposarsi e ripartiamo, oltre la sella erbosa, lì sotto, il sentiero si alza leggermente, un filo breccioso tra i prati lo fa percepire facilmente, vira a sinistra, sui fianchi della dorsale che scende dal Macirenelle e tra traversi comodi e piccoli salti rocciosi, sempre affacciandosi sul bellissimo e selvaggio vallone del Fossato, si inoltra verso i fosso profondo che fa da confine tra il Macirenelle ed il Raparo. Si supera una palina in ferro, a terra un omino e ciò che resta di un segnale indicano, senza nominarlo, la deviazione per la salita al Macirenelle. Oltrepassiamo l’incrocio, ora si fila in piano, tra miriadi di fioriture ed erba folta, alti sul fosso che si chiude in fondo sul canale che scende dalla montagna; il sentiero compie un gomito in corrispondenza del canale stesso, sale un po’ tra delle rocce e ritorna a superare una dorsale erbosa. Davanti, dall’altra parte del fosso successivo ancora più stretto e più selvaggio del primo, si esaltano il bosco e le verticali pareti rocciose, il fosso si chiude su un canale ripido ed impervio che scende dal Raparo. Sfioriamo alcune grotte sulla destra e subito dopo ci inoltriamo dentro il canale in un terreno sconnesso, forse frutto delle slavine invernali, in cui il sentiero sembra essersi sovrapposto e ricreato a più riprese; alcuni segnali in vernice accompagnano il percorso incerto e mentre ci inerpichiamo nel canale continuo a scrutare le pareti davanti e a pormi in silenzio la domanda che mi frulla in testa da un po’. Ma il sentiero dove diavolo scavalcherà quella ardita, verticale e rocciosa parete sovrastata dal bosco? Di certo là sopra, in mezzo al bosco, sui fianchi del dirupo, ma come si raggiunge quel bosco? Per tornanti stretti e su sfasciumi saliamo, arrampicandoci quasi sulla montagna, a tratti la traccia sparisce, più su un ometto indica di nuovo la strada, poi il sentiero calpestato ritorna a farsi chiaro, saliamo ripidi, sfioriamo le pareti verticali sulla destra e si ritorna verso il bosco dalla parte opposta; traversa sul fianco sassoso, ancora uno stretto tornante che sembra infilarsi nel colatoio che scende dall’alto e senza che te ne accorgi vira di nuovo a sinistra verso il bosco, quasi in parallelo al traverso appena terminato pochi metri sotto. Tutto quello che non è stato chiaro fino a quel momento improvvisamente diventa ovvio, l’ultimo traverso a sinistra si infila nel bosco, prima di entrarci sfila sotto uno spettacolare canalone che scende dal monte Raparo, un canalone di ghiaioni ed erba, che aggira alcuni speroni e si perde nelle nebbie in quota poche centinaia di metri più in alto. Sembra chiamare un’avventura, la domanda che fa porre è scontata: se si mantenesse con la stessa pendenza si riuscirebbero a raggiungere le creste sommitali? Probabilmente no, ma bello sarebbe andare a verificarlo col rischio di andarsi ad arrendere su qualche salto impossibile. Un ultimo sguardo a quell’ambiente suggestivo e ci infiliamo nel bosco dove al contrario tutta la rudezza della Majella si perde. Il sentiero è stupendo, sfila dentro un bosco rado e pulito, è ancora gonfio delle foglie cadute durante l’inverno, le nuvole basse chiudono i pochi orizzonti intuibili e nonostante si senta immediato lo spalancarsi del vuoto, l’abisso è solo percepito. Radi e ben posizionati i segnali sono stampati sui lisci tronchi dei faggi, che nonostante la stagione sono ancora radi di fogliame e bruniti; faccio più attenzione e mi accorgo che le foglie sui rami sono quelle nuove ma probabilmente bruciate dalla tardiva nevicata e dal successivo gelo del 25 Aprile scorso. Più avanti sarà ancora più palese come intere fasce di bosco siano brune come fosse ancora inverno, una vera strage vegetativa che a memoria mia davvero non ricordo. Saliamo prima per lunghi tratti rettilinei che costeggiano pareti strapiombanti e poi, per fortuna brevemente, per stretti e ripidi tornanti che si arrampicano e scavallano la dorsale, nel mezzo di una vegetazione ora molto fitta; la dorsale è rocciosa, è quella che scende dal monte Raparo. Una sella, proprio sullo spigolo tra poche rocce, siamo nel punto più alto della giornata intorno ai 1680 mt, pochi metri e si riaprono ampi sentieri, sempre dentro il bosco, prima con veloci tornanti si scende di quota e poi con lunghi traversi pianeggianti si inizia un lungo aggiramento dello scomposto fianco del monte Raparo. Quando si esce dal bosco il sentiero inizia a sfilare nel mezzo di erba alta e vegetazione fresca, segno che qui il gelo non ha colpito. Quando l’orizzonte si allarga si intuisce la profonda val Serviera, ancora foltissima di vegetazione boschiva, sulle carte la zona è contraddistinta dal toponimo “il Macchione”; si intuisce solo il fondo della valle, sospese nel mezzo flottano densi sfilacciamenti di grigie nubi, sopra di noi le pareti strapiombanti si perdono lo stesso nelle nebbie, la sensazione di solitudine e di separazione dal mondo che viviamo e che è vera, è ancora più amplificata dagli orizzonti limitati e scuri. Una Majella così è da vedere e vivere, si intuisce quanto sia tutto enorme sopra e intorno a noi, quanto siamo in disparte rispetto al mondo, quanto sia tutto molto selvaggio e poco frequentato; detto questo va anche detto che il sentiero è sempre evidente, che la segnaletica è rada ma ben disposta, e che mai si ha l’impressione di potersi perdere. Un’improvvisa apertura tra le nuvole lascia intuire la bocca del vallone sottostante fino alla sagoma pallida del lago di S.Angelo, ma è un attimo, quello sufficiente a farti rendere conto che per quanto sia si è a pochi chilometri, almeno in linea d’aria, dal mondo abitato; poi tutto ripiomba nel grigio plumbeo. Continuiamo a sfilare sui fianchi della montagna, ogni tanto più esposti sulla ripida valle, altri momenti nel mezzo di erba alta e larghe cengie. Costeggiando una ripida parete per ghiaioni si scende di quota, poi si riprende ancora un lungo traverso, grotte e piccoli lunghi tetti ci sfilano accanto, stiamo costeggiando i primi contrafforti dello spigolo roccioso che scendono dal Forcone, mentre sotto un’ampia ansa della val Serviera costringe a scontornare e aggirare il profilo della montagna; è forse il momento più spettacolare dell’intera escursione, i pendii sono ripidi e selvaggi, guglie, pareti, ghiaioni si susseguono a salti, il sentiero sfila in un lungo invisibile traverso che si palesa solo di passo in passo, in alcuni tratti sfiora la verticalità della forra sottostante; eccola la val Serviera quella epica e decantata dagli escursionisti, orridi selvaggi e forre, precipizi e grotte, puro fascino della natura. La forra in questo tratto si chiude stretta, continua contorta tra le viscere della montagna, non se ne vede il fondo, tutto si intuisce e nulla si capisce davvero; è forte il senso di rudezza, isolamento e di potenza della natura, ci si sente piccoli, in balia di un’ambiente ricco e rigoglioso ma anche duro e isolato. Sia io che Marina continuiamo in silenzio e solo dopo condivideremo l’entusiasmo e le impressioni verso quello che non esito a definire uno degli angoli di montagna più belli, unici, selvaggi e isolati dell’intero Appennino. E pensare che siamo diretti verso una capanna che fino a poco tempo fa era usata dai pastori! Il lungo traverso, sfila fino a superare l’ultima dorsale che scende dal Forcone, l’orizzonte si abbassa e si restringe, come se ci stessimo infilando in un imbuto della terra dove tutto sta per collassare. Tutto sembra convergere verso il basso, la Val Serviera, che fin qui sale, si riduce ad un fosso piatto e poco profondo, termina dove scendono altre due valli, una, quella davanti a noi, stretta, alta, contorta e altrettanto selvaggia è la Val Forcone, l’altra, a sinistra di questa, meno evidente perché nel tratto finale si confonde con le increspature del territorio è il vallone dell’ Acquaviva; sulla sponda destra di questo imbuto selvaggio è appoggiata la grotta Callarelli, una lunga e profonda grotta, una tettoia per meglio dire, la prima parte aperta, recintata, adibita a stazzo per le pecore e la seconda, più piccola, dove è stato ricavato in muratura un piccolo ambiente per il pastore. All’interno di questo minuscolo ambiente, una branda, due sgabelli ed un punto fuoco. Tre persone, in maniera scomoda, potrebbero trovare riparo, non di più, l’ambiente è ovviamente umido, non posso immaginare come poteva essere la vita dei pastori che la vivevano e frequentavano. Nella parte aperta adibita a ricovero per le pecore uno stillicidio d’acqua, convogliato in un punto di raccolta assicura la riserva idrica. Utilizziamo all’esterno un tavolo in legno mezzo sgangherato per finire di preparare i panini che ci eravamo portati. Più passavano i minuti e più sembrava che il cielo si desse raccolta in quell’ombelico, le nebbie si abbassavano lentamente e alla fine a prevalere era l’umidità insistente che portava inevitabilmente con se il freddo. Che gusto quell’angolo della “montagna madre”, sembrava di essere confinati nel nulla, lì sotto, dove le tre valli si davano incontro le sottili lingue di acqua che scendevano dalla val Forcone e dall’Acquaviva confluivano e si disperdevano nella val Serviera. Il fascino di questo posto isolatissimo è unico, oggi che ci sono ritornato e che l’ho potuto vivere a pieno e con la calma che ti da il tempo che hai a disposizione, l’ho apprezzato ancora di più. La temperatura però percepita velocemente, ci costringe a rimetterci presto in cammino, mi assicuro che la grotta, meglio dire la piccola stanza, sia chiusa e sprangata e prendiamo a scendere a valle. Erba alta quasi ci sommerge fino al punto più basso dell’imbuto dove le tre valli si incontrano, guadiamo il piccolo rigagnolo e seguiamo la traccia che risale, per un breve tratto, la valle dell’Acquaviva; anche qui si va per tracce, l’erba è alta e scivolosa, si deve raggiungere il roccione levigato che forma una leggera grotta, proprio di fronte alla Callarelli. Da lì il sentiero riprende a filare ben definito ed accompagnato da discreti ma sempre presenti segnavia. Ora siamo dall’altra parte della val Serviera, un ultimo sguardo a quel incrocio magico di valli e sentieri e ci infiliamo nel bosco. La val Serviera sparisce presto nascosta dal bosco, solo per pochi momenti si intuisce ancora. Il sentiero fila di traverso in salita con pendenza molto agevole ed in una ventina di minuti è già sul crinale, circa 1650 mt, che scavalla il versante e ci porta sui fianchi, altissimi, del vallone di Santo Spirito. Fioriture coloratissime ci danno il benvenuto insieme a caldi e gradevolissimi raggi di sole del primissimo pomeriggio; è da molto che non li sentiamo scaldarci, è piacevole ritrovarli. Un piccolo tratto pianeggiante, qualche tornante e si prende a scendere sui fianchi della valle; un traverso lunghissimo, svarianti tornanti ora alti e strapiombanti sulla profonda valle, ora all’interno di un bosco fitto. Si scende, direzione nord, ma di fatto si risale il vallone, si perde quota, per alcuni brevi tratti anche precipitando in fitti tornanti dentro il bosco, poi si vira per un altro lungo traverso verso Sud fino alla fonte del Pesco, quota 1300 circa; non la si intuisce la fonte, il sentiero si raccorda nei pressi di una palina con quello che sale, invece di scendere si prende per una cinquantina di metri in leggera salita a sinistra e si incontra la fonte, ombroso e ameno punto di ristoro per le giornate calde. La via di discesa è obbligata, dalla fonte si ritorna indietro fino alla palina di ferro, il sentiero è sempre molto marcato e, dove lo è meno, a rassicurare ci sono le bandierine del CAI. Si scende di traverso dentro il vallone e come per tutto questo tratto di fatto lo si risale, si superano alcuni pezzi di bosco devastato da datate valanghe invernali, il sentiero è stato ricostruito e per alcuni tratti, non lo avevo previsto, un po’ ci rallenta, siamo obbligati a risalire il versante per superare l’ammasso di legna disseminata lungo il vecchio percorso. Impressionante in questo tratto è confrontarsi e fare i conti con la potenza della natura e con la devastazione che si è compiuta, immagino, in pochi attimi. Svariati su è giù per riprendere il sentiero, imprevisti e faticosi saliscendi e proprio perché non aspettati ancora più fastidiosi, poi si riprende a scendere con costanza. La valle sembra non finire mai, le dimensioni sembrano infinite ed enormi; ora il bosco è fitto, ci abbassiamo di quota rapidamente, intuiamo che la bocca dei Valloni non è più lontana. Su un grosso albero una grossa “M” fissa la direzione per le cascate del Macellaro e quindi per lo stretto e chiuso vallone delle Mandrelle, ho dato una veloce occhiata per cercare il sentiero ma non sono riuscito a trovarlo, anche perché nel frattempo stava iniziando a piovere, ed ho tralasciato la ricerca; per un po’ il fogliame ci fa da ombrello, poi finisce per ridarci tutta la pioggia scesa con gli interessi. Quando iniziamo a bagnarci smette di piovere, resistiamo senza coprirci e continuiamo a scendere, ci si asciuga col calore del corpo e raggiungiamo la bocca dei Valloni, altro proverbiale incrocio di sentieri in Majella. Cominciamo a sentire la stanchezza, ci riposiamo quello che basta e riprendiamo a scendere. Ora il sentiero conta poco, è impossibile perdere la traccia, la valle ha un unico sbocco e ci condurrà fuori da questa grande montagna. Ben presto ci troviamo di nuovo a scavalcare la devastazione della valanga che ha raggiunto il fondo valle, qui è ancora più eclatante la manifestazione di potenza di questi eventi, c’è legname per qualche inverno per la popolazione di interi paesi. Sono le prime ore del pomeriggio, ma la luce si attenua, le nubi si abbassano di nuovo e verso lo sbocco della valle il cielo è plumbeo e minaccioso; oltrepassiamo l’impressionante canyon dove le pareti ripide si stringono fino a poche decine di metri l’una dall’altra. L’imponenza delle pareti, il silenzio del canyon, la luce ormai attenuata, tutto concorre a caricare di suggestione il momento e quel tratto di Majella, riprende a piovere, prima poche gocce poi sempre di più fino a diventare insistente; copriamo gli zaini ed indossiamo i gusci, il resto del tragitto, gli ultimi due chilometri saranno costantemente sotto la pioggia. La stanchezza la fa da padrona, Marina ha ancora un altro motivo per resistere, l’eremo di San Michele sulla bocca della valle, lo sa e fila per raggiungerlo il prima possibile. Quando arriviamo trova la forza ancora per sorridere e stupirsi, finalmente vive di persona le tante immagini che ha visto di questo posto. Siamo zuppi ma indugiamo per scattare qualche foto e per avvicinarci a questo solitario monumento; poi la gola, la stretta e suggestiva gola che stride rispetto alle dimensioni fino ad ora vissute, la pioggia nemmeno ci cade all’interno tanto è stretta. Siamo fuori, ora dobbiamo raggiungere solo il parcheggio, ci fermiamo dentro una delle grotte che troviamo dopo l’uscita dalla valle, c’è il segnale e possiamo utilizzate il telefono, posso chiamare il proprietario del B&B per farci venire a prendere. Quando arriviamo al parcheggio smette di piovere e compare un caldo sole; in attesa del recupero stendiamo i gusci per una approssimativa asciugatura, giusto il tempo di scolare che il nostro personale “taxi” è già sul posto. Per stradine interne in cinque minuti siamo a capo le Macchie per recuperare la nostra auto. Ho già visto definire questa una escursione da 10 e lode, non posso che ripetere e confermare un giudizio così impegnativo; dopo otto ore e mezza di cammino, 1300 mt circa di dislivello superati, circa 18 km percorsi quelle che abbiamo dentro sono emozioni provate di rado. Con questa escursione il contatto con la natura quasi selvaggia della montagna è totale, gli ambienti sono vari, molto vari, le suggestioni molteplici, il senso di wilderness assolutamente vero e assoluto. Un 10 e lode merita anche l’accoglienza abruzzese del B&B “Arcobaleno” e ristorante trattoria “Da Pagano” presso i quali abbiamo alloggiato e mangiato; il servizio è semplice, attento e cordiale, quello che non ti fa mancare nulla, la cucina è ricercatamente tipica e semplice nello stesso tempo. Leonardo poi, il gestore del locale brilla per la gentilezza e per la voglia di farti sentire ospite gradito, spicca la sua passione per i prodotti tipici, locali, di nicchia, come i piatti che ho mangiato in questi giorni: le sagne con la Borragine e salsiccia, una sorta di strozzapreti locali fatti a mano con la farina di grano Cavalier Capelli con sarde olive e peperoni rossi e briciole di pane bruschettato, ed anche l’agnello in padella con cipollotti freschi e piselli; tutto proposto in tavola con estrema cura e sapienza. Leonardo si distingue anche per la sua cordialità e gentilezza e per il modo che ha di farsi in quattro per farti sentire a casa; da ultimo ma di certo non meno importante, è stata sua l’iniziativa di venirci a recuperare a Fara, con una naturalezza sconcertante ci ha suggerito solo di preoccuparci di chiudere il percorso e di chiamarlo una volta fuori le gole, lui o chi per lui avrebbero pensato a venirci a prendere. Magnifica terra d’Abruzzo, unica la Majella e magnifici gli abruzzesi che finalmente hanno capito quanto oro vale la loro incredibile terra.